lunedì 6 febbraio 2012

Diceria dell'untore a Correggio


Al Teatro Asioli va in scena “Diceria dell’untore”; è una sfida portare sul palco il testo di Gesualdo Bufalino  dalla  lingua barocca e a tratti arcaica, intriso di ricerca e dubbi metafisici. Si entra in sala a scena aperta, in una sorta di girone dantesco, un po’ relitto di teatro greco: è il sanatorio, i malati un po’ folli, un po’ morti viventi, ripetono le stesse mosse, lente e uguali, persone come spettri.
Il protagonista è un giovane reduce della guerra e malato di tbc. Arriva alla Rocca, un sanatorio vicino a Palermo, è un secondo apprendistato di morte. Qui entra nelle simpatie del primario, il “Gran Magro”, ambiguo, cinico ed alcolista. Fra le conoscenze di malati senza speranze, nasce  l’amore per Marta, una ballerina,  bella, molto malata ex amante di un tedesco: è un amore senza futuro. L’io narrante è un bravissimo Luigi Lo Cascio, che sostiene lo spettacolo, infaticabile e toccante, in una sorta di dialogo continuo con la morte. Abile e a suo agio con il linguaggio complesso di Bufalino. Fra tutti lui solo guarisce, quasi con un senso di colpa, come una diserzione dal “noviziato della morte”, un tradimento involontario che richiede la testimonianza della “diceria”.
Al destino di morte a cui pian piano abitua la vita del sanatorio, fa da contrasto la vita del mondo fuori dalla Rocca: un contrasto che pervade tutto lo spettacolo. Qui il regista Vincenzo Pirrotta attinge dal dna siciliano: danze, canti, tarantelle, il circense con trampoliere e mangiafuoco, i musici, i pupi, ma anche gli umili, le scene popolari, le donne di vita.
Dentro la Rocca c’è  un mondo disperato,  ciascuno si aggrappa a credenze che rivelano tutta la loro fragilità al confronto con il destino di morte che attende: il ricorso alla medicina, alla fede, la fuga nel passato si rivelano ugualmente illusori. Non salva nemmeno l’amore: il protagonista guarisce  ma solo per portare la memoria dei morti.
La pena di vivere, il gioco filosofico di pensieri a chi non è rimasto molto altro da fare viene però alleggerito dalle splendide canzoni , dal circense, dalle musiche dal vivo,  epifanie e apparizioni di una  Sicilia mistica, a tratti arcaica  ma vitale e magica  sembra l’unica cosa a poter contrastare il senso di morte che aleggia, sfuggito e cercato, odiato e corteggiato. All’uscita dello spettacolo resta una poesia impalpabile.
Bella la scelta della musica e della canzone dal vivo, quasi apparizioni.
Una nota emiliana: il testo è in parte autobiografico: dopo esser sfuggito ai tedeschi e aver riparato in Emilia, nel 1944 Bufalino si ammala di tisi e viene ricoverato nel sanatorio di Scandiano, il cui primario Biancheri, raffinato umanista, nello scantinato dell’ospedale custodisce una vera e propria biblioteca. Durante la primavera del 1946 Bufalino ottiene il trasferimento in un sanatorio della Conca d’Oro, a Palermo. Vi rimarrà fino all’anno seguente e in quei mesi vive le esperienze e le emozioni che si ritroveranno nel romanzo.

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