martedì 17 maggio 2011

Roman e il suo cucciolo - recensione


Si entra in sala in penombra, uno schermo occupa l’intera scena, scorre un filmato, un quartiere periferico, palazzi alveare, un’autostrada: un degrado che racconta già un’umanità di confine. Dietro al velo-schermo, un’ appartamento fatiscente, tv sempre accesa. Così inizia “Roman e il suo cucciolo” per la regia di Alessandro Gassman al Teatro Storchi di Modena., vincitore del pemio Ubu come miglior spettacolo 2010. Un po' lo spettacolo di tutti hannoo parlato quest'anno, nel bene o nel male. Roman, scappato dalla Romania di Ceausesu non si è mai realmente integrato. E’ costretto allo spaccio per garantire al figlio adolescente, il cucciolo, educazione e sicurezza ma sogna per lui un futuro di integrazione ed un lavoro legale. Cerca un rapporto amichevole e sincero, non  nasconde al figlio i suoi commerci o le difficoltà della vita,  ma finisce sempre col cadere nell’aggressività e nell’incapacità di esprimere affetto. Il cucciolo, sensibile circondato da violenza ed esempi negativi, desidera essere integrato, si vergogna e sfugge le sue origini; scrive e in quello sogna il suo futuro. Il suo modello è Che, ambiguo intellettuale tossicodipendente che alla prova dei fatti si rivela solo un’opportunista. Per il fragile Cucciolo è il crollo di ogni ideale positivo, a cui non resta che il mondo della droga paterno. Roman vede nella tossicodipendenza del figlio la prova del suo fallimento anche come padre e l’impossibilità di riscatto; non gli resta che il suicidio, in un estremo tentativo di prendere il male su di sé e allontanare la droga dalla vita del figlio.  La recitazione iperealistica e la regia attenta assicurano sempre una visone lucida, lontana da patetismi. Spicca il bravo Manrico Gammarota e la sensibile interpretazione del giovane Giovanni Anzaldo, premio Ubu come miglior attore under 30. Un teatro che strizza all’occhio al cinema, contaminandosi, avvicinando uno spettatore diverso, ma non solo: un’abile e attenta regia che fa dialogare scena e immagini, giocando con il potere evocativo del grande schermo che sottolinea i momenti cardine della narrazione. Resta indelebile la scena dell’espiazione-esecuzione di Roman: proiettata a ralenty e ingigantita la sua caduta. Proprio questa sensibilità nuova mi sembra il motivo del premio e devo ammettere che Gassman alla regia ha davvero qualcosa da dire, un punto di vista e un modo nuovo e personale di farci vedere la storia. Preferisco il regista all'attore. Altro elemento forte è la lingua scelta da Edoardo Erba per l’adattamento del testo di Reinaldo Povod: una lingua volutamente grezza, volgare, violenta fortemente caratterizzata che imita la cadenza e la velocità l’italiano degli immigrati rumeni. Una lingua mimetica di una realtà degradata, fastidiosa ed aggressiva che non è stata accettata da tutto il pubblico, brutale come i personaggi e il loro ambiente. Più di uno, infastidito, ha lasciato la sala: peccato.
Gassman sceglie una drammaturgia che indaga la contemporaneità, il dramma dell’immigrazione visto da dentro, mostrandone tutta l’umanità. Un’ostilità che, entrando nella storia, diventa comprensione, un racconto che obbliga a guardare una realtà che fingiamo di non vedere. Lo spettacolo ha  il patrocinio di Amnesty International.

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