martedì 8 febbraio 2011

Intervista Marco Paolini - 2 di 4

Come si è formato il suo linguaggio, che sentito dal pubblico scorre così bene ma che non deve essere altrettanto facile da costruire?
“Deve essere semplice, ma non lo è da costruire. La comunicazione oggi è fondata su toni, ritmi drogati, il telegiornale sembra la pubblicità, per non parlare dei talk show in cui si vendono idee come merce. Se tu vuoi cercare una forma di oralità devi prescindere dal tempo, non devi fidarti dei modelli che ci sono intorno. Per me l’ispirazione è quasi sempre di tipo musicale, poi la scelta delle parole è istintiva, quando scrivo mi vengono in un modo, quando le dico mi accorgo che non vanno bene. Credo di essere più bravo a “scrivere in piedi” che non a “scrivere con la penna”.”  

Tema ricorrente è la memoria, una storia individuale che diventa memoria collettiva. Come ottiene questo effetto?
“Io racconto delle storie.  Cerco di farle passare attraverso di me. Devo trovare un gancio di partenza, che può essere un gancio di memoria personale o di vissuto. Lavoro su storie e dettagli esattamente come un giornalista d’inchiesta o uno sceneggiatore di cinema e devo cercare di avere i dettagli più precisi possibili. L’effetto può essere quello che dice lei, andiamo in cerca continuamente di qualcuno che ripari dei torti, che restituisca dei vuoti, per cui può esserci un effetto memoria, ma è temporaneo, è consolatorio. La memoria non si insegna dal palco del teatro. Purtroppo ha bisogno di uno sforzo collettivo. “

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